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La via della bellezza

Per la ricostruzione di un senso: Fratture

 

 

E’ necessario premettere che faccio partedell' associazione culturale Organon che si occupa della pratica e diffusione della pratica filosofica (counseling) e del counseling esistenziale. Collaboriamo strettamente, si potrebbe dire integrati, nella Fispa, fondazione per il recupero degli alcolisti che ha un Centro di Recupero in un monastero Francescano a Oriolo Romano ed un Centro di ascolto, rivolto alla cura non solo dell’alcolismo, ma anche del disagio esistenziale a Roma.

 

Il tema proposto, “La via della bellezza: per la ricostruzione di un senso”,  propone e suggerisce una serie di elementi da analizzare, prima di poter essere nell’insieme organico della proposizione.

Il primo lemma, la VIA, non pone apparentemente criticità di comprensione o interpretative, ma richiede comunque un approfondimento. Infatti la Via allude ad un percorso tracciato e delimitato, che si schiude di fronte a noi o rimanda semplicemente un percorso, ad una cammino da intraprendere?

E con Schopenhauer vorrei ricordare che noi riconosciamo nella sua unità la via percorsa, con tutte le sue deviazioni e le sue curve soltanto alla fine  di un cammino sarà quindi non sempre lineare, pieno di interruzioni e ripartenze, sarà la nostra vita ad illuminarlo.

Il termine bellezza racchiude una spinta propulsiva, forse una associazione, all’espressione artistica, estetizzante. “Bellezza” si associa immediatamente ad opere d’arte, a grandi artisti, penso a Modigliani, a Van Gogh a Caravaggio. Sono tutti artisti che hanno consacrato la propria vita drammaticamente all’Arte, all’espressione artistica, ma tutti espressioni drammatiche di vite dense di sofferenza e concluse tragicamente, bellezza non coincide tout-court con il piacere, con la gioia; non c’è rapporto di necessità tra i due elementi.

La Consulenza filosofica può sussumere in sé la Bellezza con una profondità etimologica differente, prendendo avvio dalla storia del termine, dal suo  significato in una prospettiva puramente etimologica. La parola bellezza discende dal latino BELLUS che deriva a sua volta dalla forma arcaica BENUS (che diventerà BONUS), da queste forma arcaiche, anzi dal loro diminutivo, BENULUS, si ha la parola attuale bello, quindi bellezza. Il significato di bellezza quindi in origine, ma anche oggi, nasconde un riferimento alla bontà, di un individuo, di una cosa, in una forma però mitigata dal diminutivo che rimanda ad un concetto di comodo, confacente, adeguato, in fondo un qualcosa che ci sta bene, per approssimazione il BEN-ESSERE. Ad una persona che chiede aiuto, è possibile proporre la Bellezza come via di salvezza?.

 “Ma io sto soffrendo- dirà -, del concetto di bellezza cosa mi importa?! Qualora  riuscissi a capire o a cogliere la Bellezza, il mio dolore svanirebbe? Io voglio smettere di soffrire.”

Questo è quello che chiede una persona che prova sofferenza  in cerca conforto ed aiuto. Ed a questo siamo chiamati a dare una risposta, non con un atteggiamento pedagogico o didattico, ma piuttosto con un atteggiamento rivolto ad aiutare l’altro nel far emergere possibilità dal suo vissuto e del suo modo di essere, dalle sue visioni cercando con ciò di superare la sofferenza, il dolore attuale, trascendendo il momento verso una dimensione diversa della possibilità.

Questo riporta ai temi del nostro incontro: la Via e la Bellezza.

Per tracciare la possibilità di questo percorso prenderò avvio da tre storie, tre figure metaforiche, ma vere.

 

Prima figura: un pomeriggio di prima estate

 

Nella Comunità di Recupero di Oriolo ci si raduna regolarmente per dei gruppi di riflessione e di aiuto, consulenti e ospiti, seduti in cerchio sotto una grande quercia. Spesso a questi incontri prendono parte delle persone esterne che raccontano le proprie esperienze, i propri percorsi di vita. Questi momenti di condivisione sono sempre carichi di emotività si mettono a confronto le proprie visoni, le proprie percezioni con quelle degli altri, le si mettono in discussione obbligando ciascuno ad uscire da Sé ed a condividere Sé in una dimensione comunitaria; infatti “solo una comunità di uomini responsabili è in grado di creare strutture adeguate per un incontro esistenziale, aperto al tempo ed alla storia”[1] e quello che si intraprende è un cammino verso la responsabilità. Spesso a questi incontri prendono parte dei testimoni che raccontano le proprie storie di vita.

In un pomeriggio di prima estate, una giornata soleggiata e tiepida, eravamo così raccolti con un gruppo di persone (Comunità di Recupero di Oriolo), all’ombra del grande albero, ma quel pomeriggio c’era una forte tensione. Persone sofferenti per il loro stato di dolore e di dipendenza, risolto il problema nel corso della permanenza in Comunità, dovevano affrontare il momento di uscire da un ambiente protetto, protettivo e rientrare nella vita quotidiana, nel contesto di relazioni e nella contesto nel quale si era prodotta la loro sofferenza che li aveva in portati ad immergersi nello scudo dell’oblio e dell’alcol. Ora si stava approssimando il momento di uscire e di confrontarsi individualmente, da soli, con la realtà del Fuori, del quotidiano, della immediatezza della vita. L’emozione e l’ansia e la PAURA erano evidenti e tangibili.

Il testimone, un amico, presente all’incontro cominciò  allora a raccontare la sua vicenda.
Alcuni anni  prima era stato vittima di un incidente, non di un incidente comune, ma di un incidente aereo. L’apparecchio che stava pilotando, in fase di decollo, era caduto per cause sconosciute si era abbattuto al suolo. Aveva subito un fortissimo shock e aveva riportato numerose fratture, prevalentemente agli arti inferiori. I soccorritori hanno raccontato di averlo trovato  in preda allo shock traumatico mentre stava compulsivamente tentando di uscire dall’ abitacolo contorto, impedito in questo dalle lesioni riportate.

Però, questa stessa persona, poco dopo, continua a raccontare di essere ora un pilota di professione.

“La vita è bella” affermò poi improvvisamente, anzi “bellissima”.

Queste quatto parole si diffusero tra gli ascoltatori con un senso di sgomento, uno spasmo emozionale allo stomaco, ma anche con il senso di una sfida lanciata nel centro dell’assemblea, una sfida che impegnava tutti a sostenere il contrario.

Ma nessuno lo contraddisse e nel silenzio il senso di scetticismo era tangibile.

Bene, questa vicenda,che ho riassunto liberamente, aveva innescato, in quel luogo ed in quel momento, un moto di rifiuto ... per chi vive e si confronta quotidianamente con il  un mondo di lotta contro il dolore, una affermazione di questo tipo appare sacrilega, la vita “è una schifezza!”.

 

Seconda Figura: La tazza in frantumi

 

Nella vita di tutti i giorni ci capita di rompere oggetti, tazze, bicchieri, piatti, ciotole, vasi. Nel nostro mondo di efficienza e consumo, il mondo della discarica come qualcuno lo ha definito, l’azione immediata e stizzosa è di raccogliere tutto e gettarlo nel secchio della spazzatura metterlo in una scatola nascosto in fondo ad un armadio rimuovendo il problema e rimandandolo a momenti migliori.
I meno impulsivi e più pazienti tra noi, viceversa, cosa fanno? Si armano di colla e pazienza e cercano di rimettere insieme i pezzi. Ma scelgono accuratamente tra gli innumerevoli adesivi che si possono trovare. Ce ne sono di sorprendentemente trasparenti ed invisibili, l’oggetto sembrerà intatto, le fratture scompariranno.

Abbiamo il terrore della frantumazione, dello malattia, dello sparire. Tutto ciò che non è nuovo ed intatto deve essere eliminato o nascosto, tutto ciò che sporco pulito o spazzato via.

C’è una antico racconto giapponese che narra la storia di un vecchio uomo che aveva comprato al mercato una tazza nuova, immacolata, fatta da un grande mastro vasaio. Ansioso di  metterla in mostra invitò un amico per  cerimonia del Tè, ma poi, guardando attentamente la tazza così nuova e così immacolata, provò vergogna, prese allora un pennello e della vernice dorata, una sorta di collante col quale si riparavano i vasi, e dipinse il recipiente simulando la presenza di crepe su di essa. Presentò la tazza così dipinta al suo ospite, il quale capì immediatamente la situazione e mostrò di ammirare questo “vecchia” tazza e considerò il suo amico degno della  più alta stima per questo gesto.

In Giappone esiste un’arte, un’arte estremamente antica risalente probabilmente al XVI, che vede HON’AMI KOETSU tra i suoi massimi rappresentanti. Consiste nel raccogliere vasellame vecchio e rotto, e ricostruirlo saldandone le parti riempiendo le fratture con una spessa resina. Su questa viene poi cosparsa una polvere dorata. Il SUO nome, Kintsugi, vuol infatti dire “riparare con l’oro”. Koetsu con questa tecnica decorò un vaso chiamandolo “Seppo” che vuol dire montagna innevata.

L’essenza di quest’arte è duplice, infatti contrariamente al vezzo della società dei consumi di scartare e rifiutare il vecchio e le cose rotte, non solo le recupera, ma le rivaluta e ne esalta l’essenza decorando e ponendo in risalto le fratture conseguenti alla rottura che ha reso gli oggetti inutili ed inadeguati ad essere esibiti.

La piaga, la cicatrice diviene il segno di una vita trascorsa e ricca di eventi che hanno segnato il viso e l’animo dell’individuo deformandone l’apparenza, e incidendo nella materia viva una traccia profonda quasi tale da non renderlo riconoscibile. Tali segni sono stati inflitti dalla sofferenza nel profondo, spesso invisibile, ma che ha segnato indelebilmente le cose e le persone. I giapponesi non occultano questi segni, viceversa li recuperano, sanano gli oggetti riconducendoli alla forma e consistenza originale ed i segni indelebilmente impressi vengono posti in evidenza tingendoli di oro rilucente: è proprio in quei segni che risiede la dignità ed il valore dell’oggetto e che ne fa un essere unico ed autentico portato di un valore maggiore rispetto alle qualità dell’oggetto originario.

Questo atteggiamento artistico apre ad una visione del mondo che proietta la sofferenza in una dimensione diversa dalla pura rottura:
 la frattura non è l’essenza del vaso rotto, non coincide con esso, l’essenza dell’individuo non è la sofferenza.

Il fallimento, il peccato, la colpa, l’errore non sono ferite da nascondere in nome di un efficientismo in malafede ed un perfezionismo funzionale dell’uomo. Queste ferite divengono cicatrici di una lotta, vinta o persa non ha importanza, che ci ha temprato, che ci ha visto combattenti protesi verso il superamento della difficoltà, dell’ostacolo e, dal dolore di questo confronto, oggi possiamo essere diversi e migliori. Sicuramente più autentici.

La bruttezza è nella negatività che ci ha colpito, nel malessere che chi ha accecato, questo ha però dischiuso la bellezza bagliore positivo che permette di attivare risorse nuove e inesplorate. La crisi libera la visione di un nuovo oggetto, con la consapevolezza di aver imparato qualcosa di più, di esserne usciti ulteriormente arricchiti. Per questo le cicatrici rispendono d’oro.

 

La psicologia ricorre diffusamente a questa metafora (basta verificarne l'utilizzo in Rete), ed è molto interessante riscontrarne la forza evocativaa. Alcuni psicoterapeuti hanno utilizzato il parallelo tra il Kintsugi e la resilienza, intendendo per resilienza la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.
Le persone resilienti se immerse in circostanze avverse, riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza.

 

Terza figura: Riempire il vaso

 

Ho detto che mi piace raccontare storie, aggiungo quindi una terza storia a questa panoramica sull’ “arte della frattura”, come potremmo ormai definirla.

 

Don Fabio Lorenzetti, il direttore del centro don Guanella di Roma è stato intervistato in merito alle Beatitudini e fa delle affermazioni interessanti che richiamano l’arte giapponese del Kintsugi completando la prospettiva che abbiamo delineato. Don Lorenzetti racconta che a lui è stata “affibbiata” questa “beatitudine”, di dirigere la comunità di Roma che da quasi 100 anni accoglie persone con diagnosi di disabilità intellettiva o ritardo mentale, anche associati ad altre disabilità psicofisiche o psicosensoriali. “Il dolore, la sofferenza – prosegue don Lorenzetti - è una pelle che ci ricopre, non come un abito che è possibile cambiare, ma proprio come la cute che ci è data, scura o chiare che sia, che è inseparabile dal nostro essere non la si può scegliere, come viceversa si può fare con un tatuaggio. Parlare della vita senza parlare di questo, senza calarsi dentro il dolore vuol dire che si sta apprezzando una vita a metà, una vita in percentuale.”[2]

La sofferenza sembra essere per lui consunstanziale alla vita.

La persona che sono entrate nel mondo del dolore – prosegue don Fabio - ci  spiegano cos’è la sofferenza, cos’è la vita, la bellezza della vita. Ha più valore un vaso di coccio – e siamo al Kintsugi – che si è spaccato; io posso rimetterne insieme i cocci, ma poi posso riempirlo nuovamente. E magari è possibile anche indorare le ferite di quel vaso.

Mi sono imbattuto in questa intervista, in modo assolutamente casuale,pochi giorni dopo aver iniziato la mia riflessione sulla metafora del Kintsugi e sentirla citare all’interno di un mondo, come quello dell’assistenza ai disabili quale quello della comunità di don Guanella, mi ha colpito profondamente. Ma in particolare nella esposizione di don Fabio ho potuto cogliere un aspetto incrementale rispetto all’arte della decorazione. Il vaso ricostruito può essere nuovamente riempito, ritornare a svolgere una funzione, a dispiegare la propria essenza nel mondo.

Da queste parole scaturisce però un aspetto problematico, forse semplicemente una carenza, una carenza essenziale,

-  di cosa può ora essere riempito  il vaso?

-  e a chi compete il riempire il vaso?   

 

Il senso[3]

 

Gli elementi che queste nostre storie, piccole metafore di umanità, hanno permesso di far emergere sono vari e seguono quello che sembra essere un percorso lineare ed incrementale.  

 

a) Le fratture del pilota costituiscono un antefatto un elemento che precorre, vorrei dire che causa, la percezione della vita come bellezza. E’ però una bellezza fondata sulla ristrutturazione di un Sé basato sulla forza di risorgere e ricostruire, di essere.

  • E’ quindi una frattura essenziale per trovare la bellezza nella vita?

  •  E’ quindi la sofferenza inevitabile per scorgere la bellezza nella vita?

 

Queste sono le questioni poste dalla prima storia: la VIA. Ma la domanda che viene posta merita di essere ribaltata, quello che possiamo chiederci non è se sia necessaria la sofferenza per scorgere la bellezza, ma se esista, sia possibile, una vita senza sofferenza.
Non si può cher confermare quanto implicitamente affermato da don Lorenzetti. non esiste una forma di vita priva di sofferenza. Questo mondo, nostro malgrado, non sarà mai il luogo del paradiso.

La psicologia ci indica quali traumi affliggano l’uomo, quante crisi debba superare l’individuo nel suo procedere attraverso la vita. L’esistenza stessa ci mostra a quali distacchi siamo traumaticamente soggetti nella vita affettiva per: la perdita dei genitori, la perdita di un compagno, la perdita di un figlio, la paura della perdita stessa della nostra vita.

A queste si aggiungono le perdite dell’uomo “faber”, del mondo del lavoro, che nella dimensione sociale sono altrettanto gravi e laceranti, la nostra stessa persona, l’integrità del Sé, è messa in discussione da una perdita di lavoro, di prestigio, di riconoscimento da parte degli altri. Zygmunt Bauman arriva ad affermare che la «distruzione creatrice» è il modo tipico di procedere della vita liquida ma questa espressione sorvola, passandolo sotto silenzio, sul fatto che la creazione distrugge altre forme di vita e, incidentalmente, anche esseri umani.

Questi eventi aprono delle ferite nel nostro animo. Le ferite subite, le ferite invisibili sono la via per dischiudere un visione diversa, purché accettate, individuate e riflesse. Trascurare una ferita fisica porta alla cancrena, ad una progressiva corruzione del fisico che conduce gradualmente alla morte, le ferite invisibili nell’anima portano analogamente al progressivo annichilimento dell’essere, con conseguenze spesso ben tangibili, all’alcolismo, all’assunzione di stupefacenti, alla depressione ed al suicidio.

 

b) Giungiamo così alla seconda figura, il Kinsugi, la CURA.

Le fratture necessitano di un intervento terapeutico, un prendesi cura delle lacerazioni , un intervento allargato che non preveda solamente un intervento clinico e farmacologico, ma che interpreti la “terapia” nella lettura pre-moderna[4]:

“θεραπεία, infatti, significa cura e guarigione, con un'accezione molto ampia, che va dalla medicina applicata fino ad includere, anche, ogni forma di piacere che riguardi il benessere della persona”.

Quello che deve essere posto in essere è l’azione implicata nella radice della parola, θερ, che è traducibile con tenere, sostenere: il senso pieno di terapia” è stare-con qualcuno affrontando una situazione o un evento. E’ necessario affiancare la persona sofferente aiutandola ad accogliere in Sé la sofferenza che la sta affiggendo ed applicarsi a valorizzare le ferite come eventi subiti, ridefinendoli come occasioni, fratture che aprono spiragli verso una nuovo disegno esistenziale, un nuovo progetto.

 

Il disegno, il disegnare un nuovo vivere, un nuovo progetto da porre in atto, l’arte di costruire una nuova opera nella nostra relazione nel mondo, apre la possibilità di un nuovo benessere. Se ci distanziamo dal vaso e ne apprezziamo le fratture indorate, scorgiamo come quelle stesse fratture, causa di dolore, sono ora diventate belle perché abbiamo potuto mostrarle, decorarle, accoglierle.

 

c) Ma il percorso non si esaurisce in questo, non si può limitare a decorare la sofferenza, bensì richiede un ulteriore passaggio, il superamento di una dimensione meramente estetizzante della terapia: il riempimento del vaso.

 

Un ragazza del liceo Farnesina, venuta in visita alla Comunità ha chiesto agli Ospiti: “Una volta uscito/a dalla Comunità, come pensi di riempire il vuoto che prima riempivi con l’alcol?”

 

La tazza fratturata, non era più in grado di contenere il liquido ed aveva perso lo scopo della sua esistenza, la sua essenza stessa era stata trasfigurata, l’individuo spezzato non agisce nel mondo, non ha progetto, vive nascostamente e sfugge la relazione con gli altri. Non è più un essere umano nel senso autentico del termine. L’opera di ricostruzione ne ha ripristinato le potenzialità, ma la decisione di rimpossessarsi della sua essenza è ancora da compiere, la dimensione umana è proprio la libertà di porre in atto, di dipingere la propria essenza nel mondo.

“Ecco le autentiche dimensioni della libertà, la risposta alla sfida, il progetto abbozzato sulla tela bianca. Solo una autorità interiore può, far scoprire il compito che ciascuno è chiamato a portare avanti con decisioni libere e personali. Decisioni che sanno di amarezza, di terra, di sangue, perché passano le carni vive lasciano ferite sanguinanti, fratture, forse irrimediabili. Chi ha vissuto tutto ciònon può restare come prima”.[5]

La modalità di questo dispiegarsi è personale, unica, irripetibile e ciascuno ha la responsabilità dipingere se stesso nella realtà come un’opera d’arte, sapendo che la tela potrà essere rubata, bruciata, lacerata e che dovremo tante volte riprendere in mano il pennello nella nostra vita. E’ in questo percorso creativo, di continua realizzazione dell’opera che si configura la via, la via stessa appare bellezza, il soggetto dell’opera. Con assoluta ed inesorabile certezza che questo lavoro è destinato ad essere consumato in modo definitivo dalla morte.

 

Non sparirà però: nell’animo di chi ci sopravvive , della nostra vita, resterà la ricchezza infusa dall’aver preso parte alla bellezza di quest’opera, la nostra opera d’arte.

Questa la Nostra responsabilità.

Questa la Nostra dignità.

 

 

 

[1] E. Fizzotti, Per essere liberi, Paoline Editoriale libri, 1992

 

[2] L’intervista è stata realizzata nella trasmissione televisiva “Beati voi” di TV2000, http://www.tv2000.it/beativoi/video/don-fabio-lorenzetti-parla-dellopera-don-guanella-di-roma/

 

[3] Piero Pizzi Cannella, riprodotta da http://www.mchampetier.com/opere-vendute-da-Piero-Pizzi.Cannella-2061-0-arte-e-stampe.html.

 

[4] in P.Calandruccio, CONSULENZA FILOSOFICA INDIVIDUALE. Elementi epistemologici, strumenti e casi di studio di consulenza filosofica individuale, Tesi di Master in Consulenza filosofica e antropologia esistenziale, 2013. Gentilmente concessa dall’autore.

 

[5] E. Fizzotti, Op. Cit.

"Seppo" montagna innevata di HON’AMI KOETSU XVI sec.

E' vano il ragionamento di quel filosofo, dal quale non venga curata nessuna sofferenza umana: infatti, come la medicina non ha nessuna utilità se non espelle le malattie dal corpo, così non l'ha nemmeno la filosofia, se non espelle il turbamento dall'anima. (Epicuro)

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